Disinformazione su Sylvia Plath ai tempi del web

“I social media hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli.” Così si esprimeva il lungamente compianto Umberto Eco a proposito dei social e del diritto alla libertà d’opinione che spesso diventa manifestazione di arroganza o benealtrismo, che si arroga chiunque oggi abbia una connessione a internet. Non si può non essere d’accordo con Eco, riconoscendo comunque che anch’io, di fatto, mi ritrovo fra i membri di quella legione di imbecilli (non essendo certamente un Premio Nobel). Il problema, però, sorge nell’intenzione e nel risultato di ciò che diciamo, ovvero il danneggiare o meno la collettività.

Vi chiederete cosa c’entra tutto questo discorso con Sylvia Plath. C’entra, eccome. È una delle “battaglie” che quasi giornalmente porto avanti da quando ho aperto questo blog e queste pagine su di lei: combattere quell'”invasione di imbecilli” che ogni tot, soprattutto nei giorni delle ricorrenze legate a Plath quali anniversario di nascita/morte/pubblicazioni, si sveglia per scrivere un articolo o pubblicare un post su Facebook o Instagram, scrivendo baggianate COLOSSALI (sì, il doppio senso è voluto) su un’autrice di cui evidentemente non sanno assolutamente niente. E non è l’ignoranza che biasimo, è la spocchia di volerci restare in quell’ignoranza e non spendere neanche quei due minuti di tempo che servirebbero per verificare le informazioni che si stanno inevitabilmente diffondendo e —peggio mi sento — difendersi, coi suddetti benealtrismo e/o arroganza, nel momento in cui viene fatto notare l’errore senza neanche ripararvi.

Se seguite le pagine social di Sylvia Plath Italy e di Loving Sylvia Plath, vi sarete certamente imbattut* in qualcuno dei nostri periodici post riguardanti questa (stramaledetta) foto (la prima a sinistra):

Questa è senza dubbio la fake reference più diffusa che riguarda Plath: questa foto viene spacciata ormai da una decina d’anni per una foto di Sylvia Plath, nonostante non le somigli neanche — Plath non ha mai portato i capelli in questo modo —, nonostante ci siano CENTINAIA di foto di Plath con referenze accreditate, e nonostante basti una rapidissima ricerca per immagini su Google per farsi venire un piccolo dubbio. Certo, se la vostra fonte di referenze è Tumblr o Pinterest penso che ci sia un grosso problema e non saprei come aiutarvi neanch’io, a parte dirvi che quei canali NON sono fonti attendibili.
Se vedete questa foto su Instagram, aprite i commenti sotto: ci troverete di certo un commento mio o di Anna (Loving Sylvia Plath), talvolta pure di entrambe e di molt* altr* che si accodano con ormai il messaggio automatico che dice: “La ragazza nella foto non è Sylvia Plath, ma Barbara Laage, un’attrice francese fotografata nel 1946 all’età di 26 anni quando Plath ne aveva appena 13/14, ecc. ecc.”. E se non c’è, è perché è stato cancellato con conseguente ban dal profilo (per tornare alla spocchia dell’ignoranza).

Questa è Plath nel 1947, insieme al fratello Warren. Una ragazzina. Source: Peter K. Steinberg, sylviaplathinfo.blogspot.com

Per non parlare delle citazioni che le vengono attribuite, ne ho lette veramente di ogni tipo. Una delle più romantiche che gira sempre — guarda caso solo in italiano — è: “Le ferite sui graffi si sentono di più”. Bella. Banalotta, magari, ma caruccia. Peccato non sia di Sylvia Plath, un po’ come Virginia Woolf non ha mai scritto quei “versi melensi”, come li ha definiti Nadia Fusini, di “Resta viva” (vedi qui e qui) letti addirittura al concerto del Primo Maggio dell’anno scorso da una nota cantante.

Anziché ammettere semplicemente la propria ignoranza/negligenza e rimediare alla disinformazione, una volta c’è stata una tizia che provò a fare benealtrismo, sostenendo che la cosa non era poi tanto grave. Proverei a dissentire da tale saggezza.
Diffondere informazioni sbagliate è grave (citofonare Trump e Capitol Hill), attribuire l’identità di una persona ad un’altra è grave. Non solo è irritante e svilente per chi cerca di diffondere ogni giorno informazioni corrette, è anche una disgustosa mancanza di rispetto per quella persona e per la sua famiglia. Insomma, com’era quel proverbio? Sbagliare è umano, perseverare è da str… No, vabbè, non era proprio così.

Per non parlare di tutte quelle foto veramente di cattivo gusto di donne vestite da pin up con la testa nel forno che dovrebbero rappresentare la sua morte, se non addirittura essere spacciate per sue foto. La prima era nata nel 2010 come il progetto di un’artista, Sarah Ann Loreth, sui suicidi di artisti (literary suicide series), diffusa assurdamente sul web come se fosse vera. Tutte le altre a venire sono pura morbosità, a mio parere. Bè, se ci tenete proprio tanto, ma tanto tanto, a conoscere altre castronerie e oscenità attorno a Plath, date un’occhiata qui.

Purtroppo, però, le assurdità affermate sulla vita e l’opera di Plath non si fermano solo al mondo dei social. Sarebbe facile tacciare di ignoranza solo dei poverett* che hanno avuto la malsana idea di pubblicare un post senza verificare mezza fonte. No, lo sconforto viene quando trovi articoli e altre fonti, che dovrebbero essere più attendibili, che pretendono di fare divulgazione senza neanche avere evidentemente aperto una biografia. E in Italia, purtroppo, abbiamo la medaglia d’oro. Qui, ad esempio, su Rai Radio 3 si parlava di Assia Wevill come della seconda moglie di Hughes. Sì, noterete anche qui un mio commento, di ben 3 anni fa, a dimostrazione del fatto che ho il fegato marcio da anni.

Ma andiamo all’ultimo che ho trovato stamattina e che mi ha fatto cadere le braccia così tanto da farmi venire voglia di scrivere quest’articolo per dire finalmente BASTA.
Ci sarebbe già da dire tanto sulla scelta dell’immagine, che ci riporta al discorso di prima, con questo ritratto, fatto da non si sa chi, che non somiglia proprio PER NULLA a Sylvia Plath. Ma può essere opinabile, quindi ok, sorvoliamo.
Si tratta di un articolo pubblicato sul sito di Oscar Mondadori, la casa editrice italiana che come tutti avrete capito detiene il 99% dell’esclusiva su Plath, e che di tanto in tanto decide di ripubblicare roba per la mia (masochista) felicità. L’articolo è stato scritto l’anno scorso, per i 60 anni dalla sua morte, e, sin dal titolo, suona già come un articolo di divulgazione e invito alla lettura: “Sylvia Plath: la scrittrice che tutti dovrebbero leggere”. Andiamo ad analizzare le diverse problematiche.

Io che piango leggendo assurdità su SP.

Ecco come NON dovrebbe essere scritto un articolo su Sylvia Plath: https://www.oscarmondadori.it/grandi-autrici-da-riscoprire/sylvia-plath-la-scrittrice-che-tutti-dovrebbero-leggere/

“Era l’11 febbraio 1963 quando, all’età di 31 anni, Sylvia Plath decise di lasciare questo mondo suicidandosi con il gas.”
Prima riga, prima informazione sbagliata: Plath è nata il 27 ottobre 1932 ed è morta l’11 febbraio 1963, dunque matematica vorrebbe (anche se non sono una cima) che avesse TRENT’ANNI e non trentuno al momento della sua morte.

Mentre i suoi bambini dormivano nella stanza accanto, Sylvia sigillò la porta della cucina della casa in cui aveva vissuto con suo marito Ted Hughes – erano separati da qualche mese – accese il forno e vi appoggiò la testa.”
La casa in cui è morta è l’appartamento al numero 23 di Fitzroy Road (Londra), la famosa casa, che piace tanto agli aneddotisti, in cui aveva vissuto anche Yeats. Plath si trasferì coi figli, Frieda e Nicholas, nel dicembre 1962. Hughes era già andato via di casa da mesi, quando ancora abitavano a Court Green (Devon). Ergo, non hanno MAI vissuto insieme nella casa in cui è morta.

Era triste, Sylvia, e aveva perso il senso della vita.”
Mah, banalizzare la depressione cronica di cui Plath soffrì tutta la vita con una semplice “tristezza” mi pare quanto meno fuori luogo.

“Non avrebbe mai sospettato che quel gesto l’avrebbe trasformata in un’icona, simbolo di giovani donne ribelli, ma depresse, che avrebbero popolato non solo la letteratura, ma anche la società occidentale del secondo dopoguerra.”
Ottimo. La sua depressione, il suo suicidio, il suo “infilare la testa nel forno dopo aver preparato latte e pane e spalancato la finestra dei figli e bla bla bla”… questo l’ha reso un’icona. Non le opere che ha creato NONOSTANTE quel dolore viscerale e quella sofferenza con cui non riusciva più a convivere. No, è solo una maledetta emo-sad-mad-girl di Tumblr. Ed è il simbolo di un’originale combriccola di giovani donne ribelli ma depresse. Ok.
Infatti, poco sotto, per dimostrare l’importanza nella cultura popolare di questa scrittrice, citiamo una serie Netflix e Lisa dei Simpson.

“Ma l’opera di quest’autrice è stata troppo a lungo legata a elementi contingenti – il suo suicidio, un certo femminismo retorico e di facciata – che non le rendono giustizia.”
Eh, appunto.

“Come afferma Nadia Fusini nel saggio introduttivo alle Opere raccolte nel Meridiano Mondadori, sono “ridicoli” i tentativi di contenere la sua poesia dentro “categorie quali poesia femminista o femminile, poesia confessionale o visionaria”
Cosa giustissima: il saggio di Nadia Fusini che ha contribuito a disincagliarla da quell’etichetta di poeta confessionale che non le stava proprio per nulla addosso.

Conosciuta soprattutto per la sua poesia, che le è valsa anche il premio Pulitzer, assegnato postumo nel 1982, Sylvia Plath ha anche scritto un romanzo, diversi libri per bambini, lettere e diari insuperabili.”
Diari insuperabili, in che senso? Non capisco come facciano queste due parole a stare nella stessa serie di termini ricorsivi. E comunque diversi libri per bambini? A me ne risulta solo uno (finora almeno!) che contiene solo tre storie. E avremmo dimenticato qualche prosa (che non viene ripubblicata da un bel po’ di anni da Mondadori, in effetti) raccolta in Johnny Panic e La Bibbia dei Sogni (in realtà c’è tanto altro, ma ne parleremo un’altra volta).

“Nel 1960 usciva la sua prima raccolta di versi, The Colossus, e nel 1963, l’11 febbraio, sarebbe arrivato il suicidio.”
Sarebbe arrivato il suicidio, boh. Il suicidio arriva come un vaso che ti cade in testa dal quarto piano mentre passeggi per strada. Ok.  

“Da leggere perché la protagonista Esther Greenwood (…) esce dalla campana di vetro sotto cui è relegata per diventare altro, si spoglia e getta i suoi vestiti nella notte newyorkese, non come gesto di autoannientamento ma di onnipotenza: “Io sono, io sono, io sono”.
Ok. Chiaramente non si è ben capito il libro, ci sta. Di onnipotenza comunque c’è ben poco, sia nel gesto del gettare i vestiti dal grattacielo, sia nella celeberrima frase che ha a che fare piuttosto con un desiderio di vivere, quasi imperativo e ineluttabile, nonostante tutto il resto. Inoltre, dalla campana di vetro Esther non esce mai davvero perché aleggerà sempre sopra la sua testa pronta a ritapparla di nuovo. Non è un libro che ha un così chiaro happy ending…

Insomma, vi ho annoiato abbastanza. Ogni tanto bisogna pur sfogarsi e fare un po’ di contro-informazione. Capisco il dover scrivere una recensione o un articolo “catchy” che arrivi a più persone, ma anche per il rispetto del lettore/ascoltatore bisognerebbe curare con più attenzione le referenze biografiche e fotografiche. Non sono importanti, sono fondamentali, e chi lavora con la cultura dovrebbe maneggiarla con molta più cura.

SP nel giugno 1954, l’anno della “rinascita”, biondo platino come Marilyn, fotografata nel suo elemento naturale da Gordon Lameyer. Source: The Lilly Library.

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