La Campana di Vetro – Analisi di geografia letteraria

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Conoscete la geografia letteraria?

Lo scorso semestre ho frequentato un corso di geografia letteraria all’università, era la prima volta che mi confrontavo con una materia del genere e ne sono rimasta particolarmente colpita. Pochi giorni fa ho concluso il percorso con un esame in cui ho analizzato due romanzi da me scelti: Città di Vetro di Paul Auster e La Campana di Vetro di Sylvia Plath. Il romanzo di Sylvia, in realtà, non era fra le scelte, l’ho proposto io alla docente, che ha accettato. E’ stata la prima volta che presentavo Sylvia Plath ad un esame all’università: in Italia, come sappiamo, non è mai presente nei programmi scolastici e molto di rado la si trova nei programmi universitari. Probabilmente è stata anche la prima volta che il romanzo di Sylvia Plath venisse analizzato con i metodi della geografia letteraria, ecco perché ci tengo a parlarvene.

Ma torniamo all’inizio: cos’è la geografia letteraria? E’ una disciplina che nasce negli anni ’80 del secolo scorso, dopo una crisi di lettura del paesaggio e della città da parte delle teorie urbane contemporanee. Questo ha portato da una parte la critica letteraria a mettere al centro della propria analisi lo spazio (geohumanities) e dall’altra la geografia ad interessarsi della letteratura (spatial turn). Si tratta, quindi, di un metodo d’analisi della letteratura con un approccio interdisciplinare tra geografia e critica letteraria. Il critico letterario Bertrand Westphal e il geografo Marc Brosseau sono fra i suoi fautori. La geocritica di Westphal, in particolare, si propone di analizzare gli spazi dei testi letterari, più precisamente le grandi metropoli come Parigi, Londra e New York, con una prospettiva diacronica, riscoprendone le stratificazioni nel tempo. Per fare un esempio pratico, è ciò che si può fare fra la New York degli anni ’50 raccontata da Sylvia Plath e la New York degli anni ’80 di Paul Auster. Che differenze o somiglianze si possono cogliere?

New York negli anni ’50. Foto: H. Armstrong Roberts / Classicstock / Getty Images. Source

Città Post-Moderna

Dalla seconda metà dell’Ottocento, le città hanno visto un incremento esponenziale di espansione in termini di dimensioni e insediamenti abitativi: si stima che ad oggi il 50% della popolazione globale abiti in città e questo dato è in costante sviluppo. La città moderna, ossia quella della prima metà del Novecento, ha iniziato a destabilizzare il suo abitante per la velocità di espansione; questo stato di smarrimento ha raggiunto il suo apice con la città post-moderna, quella del secondo dopoguerra in poi e, in particolar modo, la metropoli americana. Complice la dispersione urbana favorita dall’uso dell’automobile come mezzo autonomo e alla portata ormai di tutti, il tessuto urbano ha continuato (e continua) ad espandersi allontanandosi sempre più dal centro.

La città post-moderna racchiude in sé tante contraddizioni, prima fra tutte la dimensione di euforia e disforia: è insieme scacchiera di possibilità, poiché offre un’infinita gamma di occasioni di realizzazione, e labirinto, perché proprio in questo mare di possibilità è facile perdersi. Il geografo David Harvey nel suo libro La crisi della modernità, utilizza, infatti, diverse immagini per definirla:
Enciclopedia, perché tutto il sapere è ormai accessibile;
Emporio, dove tutti gli oggetti sono custoditi senza essere organizzati;
Teatro, perché chiunque può essere chi desidera;
Labirinto, cioè il luogo per antonomasia dove è facile perdere la propria identità.

A questo proposito, non vi viene forse in mente uno dei brani più citati da La Campana di Vetro?
“Vidi la mia vita diramarsi davanti a me come il verde albero di fico del racconto. Dalla punta di ciascun ramo occhieggiava e ammiccava, come un bel fico maturo, un futuro meraviglioso. Un fico rappresentava un marito e dei figli e una vita domestica felice, un altro fico rappresentava la famosa poetessa, un altro la brillante accademica, un altro ancora era Esther Greenwood, direttrice di una prestigiosa rivista, un altro era l’Europa e l’Africa e il Sudamerica, un altro fico era Costantin, Socrate, Attila e tutta una schiera di amanti dai nomi bizzarri e dai mestieri anticonvenzionali, un altro fico era la campionessa olimpionica di vela, e dietro e al di sopra di questi fichi ce n’erano molti altri che non riuscivo a distinguere. E vidi me stessa seduta alla biforcazione dell’albero, che morivo di fame per non saper decidere quale fico cogliere. Li desideravo tutti allo stesso modo, ma sceglierne uno significava rinunciare per sempre a tutti gli altri, e mentre me ne stavo lì, incapace di decidere, i fichi incominciarono ad avvizzire e annerire, finché, uno dopo l’altro, si spiaccicarono a terra ai miei piedi.”

SP nel 1953 immortalata poco prima di partire per New York.

Esther Greenwood arriva a New York e già dal primo incontro con la “metropoli tentacolare” il suo disagio è visibile: “Fu un’estate strana, soffocante, l’estate in cui i Rosenberg morirono sulla sedia elettrica, ed io ero a New York e mi sentivo un’anima persa“.
E’ consapevole di avere avuto una fortuna sfacciata e imprevedibile nell’aver vinto il mese alla redazione di uno dei più famosi magazine dell’epoca, Mademoiselle, sa che “avrebbe dovuto divertirsi da morire, che avrebbe dovuto essere l’invidia di migliaia di altre studentesse come lei in tutta l’America“, sa di poter cogliere miliardi di possibilità che la città le offre, ma in realtà non fa che sprofondare nell’abisso che le si apre dentro. E’ l’inizio della perdita di se stessi nel fagocitante labirinto urbano:
“Lo vedi che cosa può succedere in America, avrebbero detto. Una ragazza vive per diciannove anni in un paesello sperduto, senza nemmeno i soldi per comprarsi una rivista, poi ottiene una borsa di studio per il college, vince un premio, poi un altro e finisce che ha New York ai suoi piedi, come se fosse la padrona della città. Peccato che io non ero padrona di niente, nemmeno di me stessa. Non facevo che trottare dall’albergo al lavoro ai ricevimenti e dai ricevimenti all’albergo e di nuovo al lavoro come uno stupido filobus. Sì, credo che avrei dovuto trovarla un’esperienza eccitante, come facevano quasi tutte le mie compagne, ma non riuscivo a provare niente. Mi sentivo inerte e vuota, come deve sentirsi l’occhio del ciclone: in mezzo al vortice, ma trainata passivamente.”
L’esperienza di New York, quindi, è tutt’altro che piacevole e allettante per la protagonista: “New York era uno schifo. Alle nove di mattina la frescura finto-agreste che bene o male stillava durante la notte era già evaporata come le scene finali di un bel sogno. Grigie come miraggi sul fondo dei loro canyon di granito, le strade roventi tremolavano al sole, i tetti delle macchine sfrigolavano e luccicavano e la polvere secca come cenere mi entrava negli occhi e in gola.”

The Barbizon (The Amazon in TBJ), l’hotel per sole donne in cui SP trascorse il suo mese a New York. CHRONICLE / ALAMY STOCK PHOTO. Source

Mappe

Elemento fondamentale della geografia letteraria è la cartografia. Una mappa può essere presente in più modi in un libro: generalmente, infatti, esistono mappe esplicite, ovvero quando è lo stesso autore ad inserire una mappa grafica fra le pagine o all’inizio del volume (esempio: Il Signore degli Anelli di Tolkien; Città di Vetro di Paul Auster), e mappe implicite, che possono essere tracciate dal lettore seguendo il percorso del protagonista (esempio: Mrs Dalloway di Virginia Woolf; Il Grande Gatsby di Fitzgerald) oppure quando una cartina appare come oggetto all’interno del racconto, come nel nostro caso, nel tentativo della protagonista di orientarsi nel labirinto di New York:
“La calura tropicale, stagnante, che l’asfalto era andato risucchiando per tutta la giornata, mi colpì in faccia come un estremo insulto. E non sapevo dove cavolo mi trovavo. (…) Mi trascinai fino all’angolo più vicino, strisciando con la punta del dito sul muro degli edifici alla mia sinistra per mantenere l’equilibrio. Guardai la targa della via, dopodiché tirai fuori dalla borsetta la mia cartina di New York. Mi trovavo esattamente a quarantatré isolati in verticale per cinque in orizzontale dall’albergo.
Camminare non mi ha mai fatto paura. Mi avviai nella direzione giusta, contando a mezza voce gli isolati, e quando entrai nell’atrio dell’albergo ero perfettamente sobria, mi si erano soltanto gonfiati un po’ i piedi, colpa mia che non mi ero messa le calze.”

Flânerie

Figura fondamentale della geografia letteraria è il flâneur o la flâneuse, ovvero colui o colei che cammina osservando la città dal basso, cogliendone contraddizioni, dettagli inosservati, aspetti negativi e positivi. La figura del flâneur nasce con Charles Baudelaire e definiva notoriamente un intellettuale borghese, abitante di Parigi, che rallentava il passo mentre la massa correva, presa dai nuovi ritmi della città. Definito dallo stesso poeta “botanico del marciapiede”, questa figura solitaria ma dispersa fra la folla, mimetizzata ma mai invisibile, raccoglieva tutte le sensazioni trasmessegli dalla vita della città per trasformarle in esperienza estetica e quindi in poesia, racconti, romanzi o anche quadri. Con il tempo tale figura si è evoluta: autori tedeschi come Franz Hessel, Walter Benjamin e Alfred Doblin hanno traslato questa figura nella Berlino degli anni Venti del Novecento, arrivando alla conclusione che la flânerie altro non è che una pratica e come tale può essere praticata da chiunque e in qualunque luogo.
Secondo Giampaolo Nuvolati, autore di un noto saggio “L’interpretazione dei luoghi – Flanerie come esperienza di vita“, il flâneur deve rispettare la regola del “Suicidio a metà” per ottenere un’esperienza riuscita, deve cioè perdersi nel labirinto urbano, mischiarsi alla folla, senza mai lasciarsi inglobare al suo interno, senza mai farne parte davvero, perdersi senza mai perdere del tutto il controllo. In un gioco noto con la morte e l’ignoto, deve “fermarsi per ricominciare l’indomani a discendere le scale dell’inferno”. Quando questa regola non viene rispettata, il protagonista si perde e viene inghiottito dalla città, come in Città di Vetro in cui il protagonista Daniel Quinn si perde nel suo stesso gioco di identità e finisce con il “fondersi con i muri della città”. Così anche Esther Greenwood nella scena finale che si svolge a New York disperde simbolicamente tanti pezzetti di sé con i vestiti che lascia volare nella brezza della sera:
“Una brezza gagliarda mi sollevò i capelli. Ai miei piedi, la città aveva affondato le sue luci nel sonno e i suoi palazzi erano drappeggiati di nero, come per un funerale. Era la mia ultima notte. Afferrai il fagotto che mi ero portata e incominciai a tirare un lembo biancastro. Mi ritrovai in mano, inerte, una sottoveste senza spalline, di tessuto elasticizzato che con l’uso si era smollato. La sventolai, come una bandiera di resa, una volta, due volte… La brezza la afferrò e io aprii la mano. Un grosso fiocco di neve fluttuò nella notte, poi iniziò la sua lenta discesa. Chissà su quale strada o tetto sarebbe andato a posarsi. (…) Un capo alla volta, affidai tutto il mio guardaroba al vento notturno, e sfarfallando, come le ceneri di un caro estinto, i brandelli grigi vennero trascinati via, per atterrare qua e là, dove esattamente non l’avrei mai saputo, nel cuore oscuro di New York.”

Termina così la mia breve analisi. Fatemi sapere se conoscevate già la geografia letteraria o se l’avete appena scoperta.
Magari vi va di leggere qualcosa in più in proposito, quindi vi lascio dei suggerimenti bibliografici di seguito che non hanno però a che fare con Sylvia Plath:
L’interpretazione dei luoghi – Flanerie come esperienza di vita, Giampaolo Nuvolati, Firenze University Press (saggio)
Atlante del romanzo europeo, Franco Moretti, Einaudi (saggio)
The Writer’s Map: An Atlas of Imaginary Lands, a cura di Huw Lewis-Jones (solo in inglese), Thames & Hudson Ltd
A Londra con Virginia Woolf, Cristina Marconi, Giulio Perrone editore (guida letteraria) Della collana Passaggi in dogana, trovate tanti altri volumi interessanti: qui
Città Invisibili, Italo Calvino, Mondadori (romanzo)
Roma Negata – Percorsi postcoloniali nella città, Igiaba Scego, Ediesse
Articoli/Ricerche della mia docente Giada Peterle

~ Donatella

Traduzioni de La Campana di Vetro tratte dall’edizione Mondadori di Adriana Bottini, 2005.

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